Fine gennaio del 2017, andiamo in India. La prima tappa obbligata è Delhi, ma ci fermeremo giusto il tempo di vedere le cose le cose più importanti. Il viaggio è molto lungo e impegnativo, e vogliamo vedere molti posti. La tappa a Delhi ci serve anche per ambientarci.
In effetti a viaggio concluso ci sentiamo di suggerire, come tappa di arrivo Mumbai, che perlomeno ai nostri occhi, è più adatta per un ambientamento di un occidentale alla vita indiana.

Arriviamo alle 08:40, nella nebbia milanese di Delhi.
Aeroporto anonimo. Prendiamo un Taxi prepagato. Vicino l’uscita esiste un ufficetto che ti prenota il taxi e definisce il prezzo al momento della prenotazione in base al percorso. Evita “sorprese” e di trattare con l’autista.

Il primo impatto con la città è pazzesco. A partire dalla guida folle del tassista. Tutti suonano all’impazzata ovunque. La strada appena fuori dall’aeroporto è caotica e polverosa.

Avvistiamo scimmie, mucche, cani randagi, strani uccelli che vagano tra la polvere e tra le persone formando un unico amalgama.

Arriviamo al B&B. Un’oasi in una zona leggermente meno caotica a due passi dalla strada principale. La zona è di middle class (indiana): Studenti, famiglie, da un lato la metro, dall’altro una zona commerciale tranquilla e pedonale con diversi fast food. Sperimentiamo la metro per il centro. Moderna ed efficiente, costa 1/6 che a Roma.

Ci dirigiamo verso la zona istituzionale, palazzo presidenziale e la lunga via delle parate che lo collega all’India Gate. Qui fervono i preparativi per la parata della prossima settimana, festa nazionale. Noi non ci saremo, ma è interessante vedere un luogo così, frequentato da turismo locale. La strada è presidiata e perciò sgombra da traffico. Gli unici autorizzati a passare, a parte i militari, sono gli onnipresenti e insistenti Tuc Tuc. Li ignoriamo e ci godiamo la passeggiata scattando foto.

Andiamo a vedere un famoso tempio Sikh. Un’oasi di cordialità. Tutti offrono aiuto e spiegazioni senza chiedere nulla. C’è molta gente, i canti di preghiera sono diffusi con gli altoparlanti,  fuori c’è chi fa abluzioni nella piscina adiacente. Entriamo a piedi nudi e vediamo che è tutto dorato, perfino le impalcature di sostegno.

Il giorno dopo, con la metro ci dirigiamo verso la zona delle tombe Mogul.
La metropolitana è nuovissima e bellissima, in perfetto orario e… piena di gente. Ha l’aria condizionata. Per fare il biglietto ci sono le biglietterie a ogni stazione, dove ci si mette in fila non propriamente “Indiana”, infatti c’è un mucchio selvaggio, dove tutti tentano di passare avanti appena c’è uno spazio libero tra te e quello davanti. Notiamo che alcune persone non sono abituate a usarla, e restano bloccate difronte alle scale mobili, invece le scimmie si sono adattate perfettamente, e ne notiamo alcune proprio sulle scale mobili.

Usciamo e ci avviamo verso la famosa Humayun Tomb patrimonio Unesco. Durante il tragitto (stradone alberato) visitiamo il Lodi Garden, entrando da un ingresso poco significativo (sembra un vivaio), per poi scoprire che è un bel parco, frequentato da famiglie che vi si recano a fare picnic. Inoltre, contiene diverse altre tombe Mogul, più o meno conservate, ma ad accesso gratuito e in un contesto piacevole.

Uscendo poco più avanti, incontriamo un compound citato su una recensione di un ristorante letta per caso. Si chiama I.H.C. Indian Habitat Center. Visto che è quasi ora di pranzo, con esitazione proviamo a entrare. Ci sono i controlli al cancello. Tutto OK, controllano le borse e ci fanno passare. Con un giro d’esplorazione notiamo che si tratta di una struttura modernissima e anche bella. Sembra fatta da Renzo Piano. Ci sono centri congressi, uffici, ristoranti. Essendo domenica è tranquillo. È frequentato dal ceto medio alto: congressisti, coppie eleganti in stile indiano. Alcuni ristoranti sono riservati ai soci del centro, ma c’è una food court aperta agli ospiti, con varie opzioni gastronomiche. Optiamo per quello più gettonato, il Tikka House, che offre una vasta scelta di piatti locali, stavolta siamo soddisfatti. Il luogo è pieno di persone e via via si riempie per il pranzo.

All’uscita proseguiamo verso la Humayun Tomb, e dopo qualche incrocio il quartiere cambia aspetto. Finiscono i compound eleganti e si cominciano a vedere i poveri che vivono in strada. Tutto degrada fino ad arrivare alla meta, preceduta da una specie di accampamento adiacente l’ingorgo di auto e tuctuc diretti al parcheggio del sito.

Riusciamo ad entrare e troviamo una fila lunghissima a cui ci accodiamo. Dopo 30 secondi però, una guardia ci avvisa che c’è un counter separato per i “Foreign Tickets” e ci fa passare avanti. Imbarazzati lo seguiamo. Quando arriviamo alla cassa ci danno anche lì la precedenza. Quando vediamo la cifra capiamo perché: gli stranieri pagano salato (10 volte tanto il biglietto standard).

Dentro è affollato e ritroviamo, in grande stile, le stesse architetture già viste con più tranquillità la mattina al Lodi Garden. Giriamo facendo foto e, anche qui, come in Birmania, ci chiedono di poterci fare una foto, stavolta addirittura ci danno una bimbetta da tenere in braccio mentre ci fotografano.

Al ritorno passo veloce fino alla metro, l’ambiente non è piacevole, una specie di slum tagliato da una grande strada. Cena leggera visto il pranzo e riposo. 

Il giorno successivo prendiamo la metropolitana per la città vecchia. All’arrivo, il caos è totale, sembra un’altra città, con il giardino adiacente la stazione pieno di “gente di strada” e, lato opposto, vicoli pedonali brulicanti di venditori, mendicanti, gente.

Dopo un attimo in cui cerchiamo di orientarci in questo guazzabuglio, chiediamo a una guardia per i Red Fort, e ci indica di proseguire. Sbuchiamo in un’arteria caotica di auto e tuk tuk (stipati!), e in lontananza, intravediamo quello che dovrebbe essere il Red Fort. Ad una piazza chiediamo informazioni ad una guardia, che ci dice che il Redford è chiuso fino al 26!! Affranti, torniamo sui nostri passi e proviamo a inoltrarci in una strada laterale per andare a vedere Jama Masjid (la grande moschea), ma siamo stanchi e il posto è sgradevole, quindi desistiamo.

Dopo pranzo decidiamo di andare a vedere il Qutub Minar, altro sito Unesco a breve distanza, ma raggiungibile solo in tuctuc, strada brutta e niente metro. Luca, contratta la tariffa (poco più di 1 €). E ci ri-infiliamo nel traffico strombazzante. Dopo pochi minuti arriviamo al sito. Il posto è piacevole e originale. Si tratta del primo insediamento islamico del dodicesimo secolo, e comprende un imponente minareto e i resti di una moschea costruita con un materiale prelevato dai templi indù/giainisti e ripulito di immagini e pitture, letteralmente raschiate via (l’islam non consente la rappresentazione di immagini umane). Il risultato è d’effetto. Tutto intorno grandi giardini con altri piccoli edifici (tombe). Torniamo all’uscita e schiviamo (con qualche attimo di tensione) un procacciatore di “polli” che tenta di farci prendere un taxi per portarci in qualche bazar.

Domani si parte.